La prospettiva rovesciata è il titolo di un testo di Pavel Florenskij scritto nel 1919 e dedicato al mondo delle icone. Insieme all’altra fondamentale opera, Le porte regali, anche in questo lavoro Florenskij approfondisce il significato simbolico, religioso e artistico delle icone e qui si sofferma in particolare sull’utilizzo – o, meglio, sul non utilizzo – della visione prospettica con riflessioni di grande profondità.
La tesi di fondo, esplicitata in modo chiaro e ripetutamente ribadita dall’autore, è che “in quelle fasi storiche della creatività artistica in cui non si osserva l’utilizzo della prospettiva, i creatori delle arti figurative non è che non sapevano, ma non volevano utilizzarla o, più precisamente, volevano utilizzare un principio figurativo diverso da quello della prospettiva, e volevano così perché il genio del tempo comprende e sente il mondo in un modo che racchiude in sé in maniera immanente anche questo procedimento figurativo.
[…] L’assenza della prospettiva diretta presso gli egizi, come, in modo diverso, anche presso i cinesi, è più una dimostrazione della maturità, e persino del senile eccesso di maturità, della loro arte, che non una prova della sua presunta inesperienza infantile: è la liberazione dalla prospettiva o l’originario disconoscimento del suo potere (potere tipico del soggettivismo e dell’illusionismo) in nome di una oggettività religiosa e di una metafisica sovrapersonale. Invece il principio della prospettiva, che è caratteristico di una coscienza disgregata, fa la sua comparsa proprio quando viene meno la solidità religiosa della concezione del mondo e quando la sacra metafisica della coscienza comune del popolo viene corrosa dall’opinione individuale del singolo con il suo singolare punto di vista”.
La prospettiva nasce in teatro, è scenografia, è inganno, “vuole sostituire la realtà con la sua apparenza. La pittura pura, diversamente, è innanzi tutto, o vuole essere perlomeno, la verità della vita, una verità che non sostituisce la vita, ma si limita a rimandare simbolicamente alla sua realtà più profonda”.
La distanza tra queste due visioni si rivela anche nel ruolo della volontà. “Il pathos dell’uomo moderno (prospettico) è quello della liberazione da ogni realtà, perché l’io voglio detti di nuovo legge a una realtà ancora in costruzione. Al contrario, il pathos dell’uomo antico, come anche dell’uomo medievale, è quello dell’accettazione, del riconoscimento pieno di gratitudine e dell’affermazione di ogni realtà come un bene, perché l’essere è il bene e il bene è l’essere.
[…] Per l’uomo moderno la realtà esiste solo ed esclusivamente quando, e nella misura in cui, la scienza si degna di permetterle di esistere, concedendole questo suo permesso nella forma di uno schema inventato.
[…] L’uomo antico e medievale sa innanzi tutto che per volere bisogna essere, essere una realtà e trovarsi in un mondo fatto di realtà, sulle quali ci si deve fondare; è un uomo profondamente realista che sta con i piedi ben piantati per terra, al contrario dell’uomo moderno che si preoccupa soltanto dei suoi desideri. Da quanto detto, si capisce che le premesse di una concezione realistica della vita sono sempre state e sempre saranno le seguenti: ci sono delle realtà, ci sono cioè dei centri dell’essere, dei grumi di essere che sono soggetti a leggi loro proprie, e che hanno perciò una propria forma. Per questo le forme devono essere concepite in base alla loro vita e devono essere raffigurate in sé e per sé, secondo il modo in cui sono state concepite e non in base alle angolazioni di una prospettiva predeterminata fin dall’inizio”.
[Le citazioni in corsivo sono tratte da: Pavel Florenskij, La prospettiva rovesciata, Adelphi Edizioni 2020 – Traduzione di Adriano Dell’Asta]