di Richard Heron Ward
(…) Fu sulla terrazza del Café les Deux Magots a Parigi che, una sera d’ottobre del 1928, incontrai per la prima e unica volta lo strano uomo, d’una certa età, che devo chiamare Signor X, poiché non ho mai saputo il suo nome. È stato certamente uno degli incontri più singolari della mia vita, difficile da descrivere in maniera convincente.
C’era poca gente nel locale, ma ad un certo momento mi sono reso conto che qualcuno era venuto a sedersi al tavolo proprio accanto al mio. Non l’avevo visto arrivare: quando ho alzato gli occhi egli era là, semplicemente. (…)
Non avevo mai visto quell’uomo. Eppure, dopo averlo notato, c’era in lui qualcosa che mi ha spinto a guardarlo di nuovo. Se ne stava seduto in un silenzio particolare, l’espressione dei suoi occhi aveva una qualità che non potevo definire. Poteva avere sessant’anni, era quasi completamente calvo, con grandi baffi brizzolati che gli nascondevano la bocca. Era tarchiato ma non obeso, i suoi vestiti erano di buona qualità senza essere raffinati, molto personali ma non vistosi. Senza dubbio si era reso conto che io non solo avevo percepito il suo arrivo, ma lo stavo osservando al di sopra del mio libro, poiché dopo un breve istante si sporse in avanti e mi rivolse la parola. (…)
Parlava francese correntemente, con un forte accento straniero, di un altro paese europeo, o più lontano verso l’est, non avrei saputo dire. Aveva maniere gradevoli, e parlammo per qualche minuto di quelle banalità che si utilizzano di frequente quando degli sconosciuti s’incontrano, cercando di entrare in sintonia e di trovare un vero argomento di conversazione. Tuttavia, avevo la strana sensazione che fossi solo io a sentire il bisogno di entrare in sintonia, e che il Signor X sapesse perfettamente “a che punto era” senza quel genere di preliminari.
Mi disse che era ufficiale di marina in pensione, e che ora esercitava la professione di “indovino”. Che il Signor X fosse un ufficiale di marina in pensione, non lo credetti, e forse (penso oggi) la sua intenzione era proprio questa; io sospettavo che, se effettivamente era indovino di professione, stava considerandomi come un cliente. Tale sospetto sembrò guastare un po’ la pace di quella sera d’autunno ed escludere evidentemente qualsiasi proseguimento della conversazione con qualcuno che aveva comunque l’aria interessante; infatti, io non avevo denaro per fagli predire il mio avvenire, e in ogni caso la cosa non m’interessava.
Ma ebbi appena il tempo di rendermi conto della mia delusione e di far finta di tornare al mio libro, che il Signor X cominciò a dire che non voleva che io pensassi che mi considerava un cliente, in ogni caso non in senso commerciale, benché fosse prontissimo a dirmi qualcosa su me stesso, purché io fossi pronto ad ascoltarlo. “Lei è uno studente”, disse, “e benché guadagni un po’ di denaro mentre prosegue nei suoi studi, non ne ha per ciò che lei chiamerebbe delle frivolezze”. Sul momento quest’apprezzamento della mia situazione mi parve tanto notevole quanto le deduzioni di Sherlock Holmes al Dott. Watson. Allo stesso tempo, senza altre cerimonie, l’indovino aveva cominciato a dire delle cose.
Se in un certo senso la situazione si presentava come un guazzabuglio bizzarro, dall’altro lato era ancor più bizzarra di quanto apparisse, e per niente ingarbugliata. Il Signor X parlava in modo sicuro, pieno di riguardi, come se, con quei suoi occhi poco comuni, “vedesse” già, da qualche parte, ciò che mi diceva. (…)
Quegli strani occhi mi guardavano, e in un altro senso non mi guardavano affatto; cioè, non guardavano la mia apparenza esteriore ma piuttosto un altro aspetto di me, meno tangibile, un aspetto di cui io non ero consapevole. Ciò che diceva il Signor X era un guazzabuglio nella misura in cui era condito d’un gergo riguardante l’influenza delle stelle, i segni dello zodiaco, dei riferimenti “numerologici”, e altre osservazioni del tipo: “Lei deve sempre indossare qualcosa di blu”. (…) Quando sciorinava quelle chiacchiere da ciarlatano professionale, c’era qualcosa del commediante nella persona che ora si trovava accanto a me, seduta al mio tavolo, e io avevo l’impressione che lui stesso non ci credesse. Forse si divertiva alle mie spalle, o alle spalle dell’umanità e delle sue scempiaggini in genere. Forse si serviva di quell’accozzaglia di parole come d’una specie di attrattiva, pensando che senza ciò non avrei potuto mandar giù le altre cose che desiderava dirmi. Può anche darsi che il Signor X volesse vedere se mi sarei lasciato coinvolgere nel suo gioco o se l’avrei rifiutato.
Adesso sono sicuro di una cosa: il Signor X non era indovino più di quanto fosse ufficiale di marina in pensione. Ciononostante, egli era un chiaroveggente; ossia, era capace di parlare di avvenimenti che mi sarebbero accaduti in futuro e anche di avvenimenti che si erano verificati nel mio passato; aveva una conoscenza e una comprensione insolite che trascendevano i limiti ordinari del tempo; aveva, suppongo, quella che si chiama a volte una “seconda vista”. Quando parlava di cose già successe in passato, potevo evidentemente verificarle subito con l’aiuto della memoria. Quando parlava di cose che avrebbero dovuto accadere in futuro, tale verifica non era possibile. Eppure, noi abbiamo forse una memoria del futuro, senza esserne coscienti normalmente, e forse quell’uomo fuori dall’ordinario era capace di attingere, al di là della nostra solita comprensione, dalla mia memoria incosciente, ciò che sarebbe stato il mio avvenire. Quali che fossero i suoi poteri, resta un fatto: molte delle cose che aveva previsto quella sera si sono verificate nel quarto di secolo che seguì, e possono ora essere messe a confronto con il ricordo del passato.
(…) Così, posso soltanto concludere che esistono persone che sono in un certo modo liberate dal tempo come noi lo calcoliamo abitualmente, e che il Signor X era uno di loro, che era capace, per così dire, di entrare in una dimensione al di là delle quattro dimensioni che noi riconosciamo correntemente: la lunghezza, la larghezza, l’altezza e il tempo stesso, e di guardare, a partire di là, lungo tutta la mia vita, di vederla così chiaramente come noi, dal nostro punto di vista nel tempo, vediamo la lunghezza, la larghezza e l’altezza.
Presto, tuttavia, il suo atteggiamento cambiò. Non solo egli mise completamente da parte i suoi giochi di attore, ma smise anche di raccontare la mia “buona ventura”, di parlare del passato e del futuro o di me in particolare (salvo alla fine). Era come se il sipario avesse finito di alzarsi, il che in ogni modo non aveva molta importanza, salvo forse quella di mettere sul gusto l’uditorio per la parte essenziale della serata. (…) Il Signor X mi regalò allora un discorso filosofico e metafisico di cui non comprendevo quasi niente e che ho purtroppo dimenticato. Ricordo la singolare “atmosfera” intorno a ciò che egli diceva, più che le sue osservazioni specifiche; ricordo che mi diede in quel momento l’impressione di essere una persona che pensava e sentiva del tutto diversamente dalle altre persone di mia conoscenza, tanto che lui stesso sembrava qualcuno di completamente diverso dall’uomo che avevo percepito all’inizio, circa un quarto d’ora prima, e con il quale stavo parlando da quel momento. (…)
Dopo averlo ascoltato per circa un’ora, potevo solo con gran difficoltà ricordare la mia prima impressione di lui; forse perché, avendolo un po’ frequentato, avevo potuto “correggere”, in qualche modo, quella prima impressione. Non restava più niente della ciarlataneria di cui avevo sospettato prima il Signor X. (…) La cosa curiosa, credo, è che se avesse ora parlato dell’astrologia, o di Pitagora, non ne sarei assolutamente più stato infastidito o scettico, come se ne avesse parlato in un altro modo. Ma era lui che era cambiato? Forse ero io che ero cambiato sotto la sua influenza; può darsi che io ora lo ascoltassi con un lato della mia natura più profonda e più seria.
Comunque sia, ero consapevole di ciò che avevo chiamato un’“atmosfera singolare”, in mancanza di parole più giuste. Ma ero incapace di definire quell’ambiente singolare, se non in negativo. Non era né “ipnotico”, né illusorio, né seducente, e meno ancora una “fantasticheria”. Quale che fosse il suo effetto su di me, il Signor X certamente non mi addormentava; se posso trovare qualcosa di positivo da dire, è che stava svegliandomi. Non ero così assorbito da ciò che diceva al punto da ignorare tutto ciò che mi circondava; al contrario, ero consapevole più del solito, non soltanto dello stesso Signor X e delle sue parole, ma dei clacson dei tassì, delle altre persone sulla terrazza del caffè, dei bracieri rossastri sullo sfondo della notte blu scuro; tutto era ben più percepibile del normale. E io ero al tempo stesso straordinariamente cosciente di me stesso e dei processi mentali ed emozionali messi in movimento in me da ciò che diceva il Signor X. Era, in realtà, un’esperienza strana e indimenticabile.
Ma cosa diceva il Signor X? Come ho già precisato, posso ricordarmene soltanto in termini molto generali; mi ricordo l’ambiente delle parole piuttosto che le parole stesse. Diceva che ci sono due mondi, due realtà; diceva che noi abitiamo, o possiamo abitare se lo desideriamo, il mondo esteriore delle forme e il mondo interiore delle idee, e che questi mondi non sono separati (…) ma s’interpenetrano. Diceva, però, che il mondo interiore è in gran parte chiuso per noi, benché possiamo non rendercene conto, essendo a mala pena coscienti della sua esistenza; proprio come possiamo non renderci conto che questo mondo interiore può aprirsi a noi se cerchiamo i mezzi appropriati allo scopo. Diceva che l’uomo abita questo mondo interiore come un embrione abita la matrice, che quest’uomo embrione abortisce nella maggioranza dei casi e non arriva mai a completarsi. Ma diceva anche che è possibile per l’embrione svilupparsi, crescere e diventare adulto; se questo accadesse, e così la persona diventasse un uomo libero, un uomo del mondo interiore, capace di viverci e di lavorarci come gli adulti vivono e lavorano nel mondo esteriore, quest’uomo erediterebbe quella realtà che è potenzialmente il suo vero posto psicologico. Allora molte cose nel suo mondo esteriore, e nella vita che egli vi conduce, cambierebbero; una persona del genere non sarebbe più lo schiavo della vita: la libertà nel mondo interiore gli accorderebbe la libertà nel mondo esteriore.
Infine, il Signor X diceva, con una certa severità e come se avesse un’autorità senza alcun rapporto con la nostra differenza di età, che io dovevo cercare di conoscere e di comprendere quelle cose, che non dovevo accontentarmi unicamente della vita esteriore e soddisfarmi soltanto dell’ambizione, della sicurezza materiale e d’una posizione sociale riconosciuta fra i miei simili. Diceva che la vita comporta assai più che vivere. Vivere dev’essere compiuto fino in fondo, non come un fine in sé ma soltanto come un inizio della scoperta del “mondo successivo”, la realtà interiore, non dopo la morte ma in questa vita. All’età di diciott’anni trovavo la cosa per lo più sconcertante. Il Signor X se ne rendeva conto benissimo, poiché proseguì dicendo che, in un certo senso, non c’era bisogno di affrettarsi quando si è giovani, “purché non ci si dimentichi mai che si deve morire”, e che per questa ragione il tempo è sempre breve.
Presto smise di parlare e rimase silenzioso per un momento. Poi, pagato il conto, si alzò dicendo:
“Tutto questo vuol dire che deve impegnarsi nella ricerca di chi lei è”, poi aggiunse “non qui, ma là”.
Con questa strana osservazione, che compresi come riferita ai due mondi di cui mi aveva parlato, se ne andò e si perse fra la gente sul marciapiede; si perse, mi parve, in un modo sorprendentemente rapido e totale. Un momento prima, era lì, il momento dopo non c’era più. (…) Uno straordinario sentimento m’invadeva: forse non era mai stato lì con me.
Era evidentemente assurdo; ma era forse un modo di esprimere l’idea che mi è venuta in seguito. (…) Chi era il Signor X? Avevo la risposta, fintanto che egli era con me, in un modo che ha poco a che vedere con il nome o la professione o gli altri mezzi che impieghiamo, senza esserne troppo sicuri, per identificare e farci un’idea sulle persone. Ma appena mi lasciò, non conoscevo più la risposta. Forse dovrò attendere parecchi anni prima di conoscerla di nuovo. E in questo senso credo che quello strano uomo abbia agito molto sottilmente, cominciando col trarmi in inganno come “indovino”, dapprima ricordando delle cose già accadute, incontestabili, poi predicendo molte cose che avrebbero risvegliato la mia curiosità. Doveva sapere molto bene che, ogni volta che una delle sue previsioni si fosse avverata negli anni a venire, mi sarei ricordato di lui e avrei cercato di ricordarmi le cose assai più importanti dette dopo la “buona ventura”; doveva sapere molto bene che tutto questo, a sua volta, mi avrebbe spinto a tentare di risolvere la questione di chi lui fosse, e che lo sforzo di rispondere a questa domanda sarebbe stato un approccio per tentare di trovare chi sono io; chi sono io “non qui, ma là”. Poiché era “là”, senza alcun dubbio, che ha avuto luogo, nel senso più reale, l’essenziale di quello strano incontro. Quest’idea sarà compresa da certuni e non da altri. Non cercherò di spiegarla di più, se non per dire che noi ci sbagliamo se crediamo di vivere sempre sullo stesso piano di coscienza.
Gurdjieff International Review, Vol. VIII, Autunno 2004, pagg. 69-74
Estratto da: A Gallery of Mirrors: Memory of Childhood, Boyhood and Early Youth, di Richard Heron Ward.
In questo libro l’autore descrive diciotto persone straordinarie che l’hanno molto influenzato in gioventù.